Qual è l’origine del gusto? Quando impariamo a distinguere i sapori? E quali sono “primari” per il palato che, unendosi e accompagnati dall’olfatto ci guidano nelle scelte e nel riconoscere i sapori complessi? Secondo teorie tradizionali, i cibi si possono classificare secondo
quattro gusti base: dolce, salato, acido e amaro. Ma ormai da tempo sappiamo, grazie alle tradizioni giapponesi e al lavoro degli scienziati del sol levante che le hanno tradotte in conoscenza, che a questa descrizione manca un tassello cruciale, un quinto sapore base, che ci accompagna dai tempi più antichi e dalla più tenera età, in ogni esperienza culinaria. Il suo nome è
umami, spesso tradotto come
sapido.
Tutto il gusto di una molecolaPur traducendolo in italiano, il concetto giapponese di “umami” resta sfuggente: significa “sapido”, ma anche “saporito” e “delizioso”. Cosa esiste però che non sia già descritto dai termini salato, dolce, acido o amaro?
L’
umami è il primo sapore in assoluto con cui il palato entra in contatto, universale e primordiale per antonomasia: il gusto del latte materno e, in generale, dei cibi ricchi di glutammato, derivato delle proteine. Gabriella Morini, professoressa di Scienze del Gusto e del Cibo all’Università di Pollenzo (CN), lo ha definito come “il gusto più umano che esiste”, perché nasce dalla degradazione delle proteine dopo processi di lunga cottura, fermentazione o stagionatura, ossia manipolazioni tipicamente umane degli alimenti. Come gusto, è probabilmente quello che si sprigiona più lentamente.
Ad identificarlo per primo fu nel 1908 Ikeda Kikunae, titolare della Cattedra di Chimica all’Università Imperiale di Tokyo. La raffinatezza del
dashi,
tipico brodo nipponico a base di tonnetto essiccato ed alga kombu, e la sensazione di cogliere esattamente lo stesso sapore nelle alghe della ricetta e in altri cibi stuzzicò la sua curiosità. Compì così analisi di laboratorio e diede avvio ad una piccola rivoluzione: scoprì che la nota particolare che sentiva derivava da una molecola specifica, un aminoacido non essenziale, l’acido glutammico, presente in forma di piccoli cristalli di sale monosodico. Aveva identificato scientificamente e chimicamente esistenza ed essenza del quinto gusto, che la cucina giapponese già conosceva empiricamente, tramandava in tante ricette e esaltava attraverso la lavorazione di molte materie prime e di numerosi ingredienti. Lo chiamò
umami per la sua vivace gradevolezza.
Questa scoperta gli valse l’inserimento nei “Top Japanese Great Inventors”, che con le loro ricerche avevano migliorato la qualità di vita dei connazionali. Aveva infatti subito provveduto a trasformarla nel condimento “Ajinomoto”, che significa letteralmente “la base del sapore” o “il sapore di base”, commercializzato a supporto del problema della malnutrizione. Da allora, questo condimento si è
diffuso in molta parte dell’
Asia orientale e
sud-orientale. Oggi, un barattolino di glutammato fa bella mostra di sé in tutte le cucine dell’Estremo Oriente. Ma soprattutto, prende parte in tantissime ricette. Basti pensare che nella sola Cina il consumo medio annuo si aggira intorno al milione di tonnellate.
La lunga strada verso la consacrazioneMolecola scientificamente documentata dunque, e sapore che i cuochi orientali dosano sapientemente da secoli. La sua consacrazione mondiale è arrivata, in un certo senso, nel 2013, quando anche grazie alla maestria nell’uso del gusto umami al posto dei grassi animali, la cucina tradizionale giapponese ha fatto il suo ingresso nel patrimonio immateriale UNESCO. In Occidente l’idea
umami ha avuto vita difficile per parte del secolo scorso. Il glutammato è stato a lungo considerato un mero esaltatore di sapore e sinonimo di prodotti di scarsa qualità o addirittura causa di patologie, come la fantomatica “sindrome da ristorante cinese”. E la divisione tradizionale dei sapori di base in quattro categorie non ha aiutato ad accettare l’esistenza di un quinto. Il sapido (se così vogliamo tradurre
umami), comunque, da tempo fa parte delle categorie del gusto degli esperti: chef, tecnici, produttori, sommeliers... il quinto gusto e il suo ruolo nella succulenza dei cibi stanno diventando parte del linguaggio culinario anche negli angoli più tradizionali il vecchio continente da tempo, e anche in una terra spesso molto conservatrice a tavola come l’Italia, perché è pressoché onnipresente! Lo gustiamo quando assaporiamo carne di manzo, pollo o maiale, prosciutto crudo, tonno, broccoli, rape, piselli, patate, asparagi e aglio nero, prodotti caseari stagionati. Il
Parmigiano Reggiano, ingrediente d’eccezione della nostra cucina, detiene addirittura il record mondiale di contenuto in glutammato, che aumenta di pari passo con il grado di invecchiamento. Ogni qualvolta lo aggiungiamo in un piatto, stiamo ricercando il raffinato piacere del quinto gusto.
Di
umami è ricchissimo anche un altro prodotto popolarissimo in Italia, il pomodoro, che cotto o ben maturo è uno dei vegetali con più alta concentrazione di acido glutammico libero e, come tale, esalta magnificamente ogni sapore.
E quel tocco speciale con cui gli chef occidentali rendono più intense le ricette senza eccedere in sale? Si aggiunge una piccolissima quantità di acciughe sotto sale o colatura di alici e il loro alto contenuto in acido glutammico fa il resto, valorizzando tutti gli ingredienti, esattamente come si usava fare in antico con il garum, condimento ottenuto dalla fermentazione del pesce, popolarissimo nella Roma antica.
L’uso sapiente e consapevole del quinto sapore è ormai una qualità sine qua non dei grandi chef. Nel libro “Umami: the Fifth Taste”, Heston Blumenthal, esponente della cucina molecolare e cuoco del tre stelle Michelin “The Fat Duck”, sostiene l’assoluta importanza di questo sapore e nella stessa direzione operano chef come la romana Cristina Bowerman, ideatrice dell’Umami Burger, o Antonio Borruso a Bormio, con il suo ristorante stella Michelin intitolato proprio al quinto gusto.
Fino alla luna e ritorno: salute assicurata!Da decenni ormai, esperti e appassionati sottolineano l’importanza del quinto sapore anche per aspetti puramente nutrizionali, perché aiuta a regolare abitudini ed esigenze alimentari. Non è un caso che la natura abbia previsto recettori specifici su lingua e stomaco per catturarne l’essenza e renderne piacevole la recezione. L’
umami ci attira verso cibi ricchi di proteine, indispensabili all’organismo: da un lato li rende stuzzicanti, stimolando salivazione, digestione e assorbimento dei nutrienti e dall’altro ne potenzia le capacità sazianti, ritardando e riducendo la sensazione di appetito. Studiosi dell’
Università del Tohoku in Giappone, hanno dimostrato la stretta correlazione tra perdita di sensibilità verso questo sapore e inappetenza e indebolimento fisico, soprattutto negli anziani.
Grazie alla sua capacità di esaltare i sapori, supplisce anche egregiamente al nostro desiderio di salato. Il consumo eccessivo di sale rappresenta un rischio per la salute. In particolare, nel caso degli astronauti in orbita può provocare gravi problemi di disidratazione. Ecco, allora, che l’umami sfodera futuristiche armi: cosa meglio di una prelibata lasagna o parmigiana di melanzane arricchite in glutammato, come quelle ideate per l’Ente Spaziale Europeo da
Davide Scabin, due stelle Michelin?
Di esperienza in esperienza, il palato si affina in capacità e raffinatezza di percezione. Ecco così che un sesto gusto, l’avvolgente
kokumi, si va affacciando sulla scena… chissà se è davvero un gusto primario!