Merenda sinoira, sintesi di un carattere e di una filosofia di vita. Sbrigativo e chiaro. In Piemonte il piacere della convivialità diventa appuntamento nel tardo pomeriggio: una merenda che, per abbondanza di cibo e di vini, sconfina con la cena. Un tutt’uno. Nata nel mondo contadino, dalla primavera all’autunno, quando le giornate erano lunghe e il lavoro nei campi si prolungava fino al calare del sole. Segnava la fatica conclusa, una sorta di ricompensa per chi aveva collaborato. Dal latino «
merére», guadagnarsi. Al gerundio merenda. Una sosta frugale: salumi e caci, uova, pinzimonio di verdure, dai peperoni ai cipollotti.
Fu il passaggio successivo, nel ceto borghese, a dotarla di uno spirito gaudente. Da
bon vivant. In Langa l’adottarono i proprietari di terre che, dopo la partita al caffè, trascinavano in cascina brigate di amici. Si mangiava e si controllava la dispensa e la cantina, il raccolto, senza dare troppo nell’occhio, tanto per far sentire la propria presenza ai mezzadri. Ben lo conosceva Tobia, uno dei protagonisti de «La malora» di Beppe Fenoglio, che impreca contro il padrone che si fa portare vino, pane e quattro robiole una sull’altra. «E loro le intaccano tutte per trovare la più saporita ma poi finiscono per piluccare a tutt’e quattro» commenta con insofferenza.
La merenda sinoira non conosce formalità. Una tavola improvvisata, ma di sostanza: salumi e formaggi, frittate d’erbe, giardiniera, acciughe al verde,
carpionà di trote o di zucchine, uova al
cirighèt, fritte con aglio, aceto e capperi. Se la stagione accompagna anche funghi e fondute con tartufi.
Un pasto sempre attuale. Anche New York, pochi anni fa, ne lanciò la moda, pensando di essere arrivata prima:
slunch, dall’unione di
supper e
lunch, un neologismo entrato nel dizionario come merenda lunga, una soluzione al ricevere d’oggi. Gli ospiti arrivano nel tardo pomeriggio, si apparecchia in modo disinvolto con il contributo di tutti e non si va oltre una certa ora. A vantaggio del piacere di stare insieme.