Oro verde è uno degli appellativi dell’olio extravergine d’oliva: tali sono il suo pregio, le sue qualità e l’importanza che riveste nel panorama gastronomico mondiale, che questa definizione calza a pennello.
L’Italia è il
maggiore produttore di olio extravergine
al mondo, con certificazioni e peculiarità regionali che nessun altro paese può vantare. Ciò è dovuto anche alla presenza costante e antica di questo ingrediente sulla nostra tavola, che ha portato l’ulivo a divenire un elemento costitutivo del nostro paesaggio naturale. Ma quanto è antico questo rapporto d’amore?
Tra mito e storiaI primi a sperimentare la coltivazione del selvatico oleastro e la trasformazione delle
olive in olio furono i Cretesi, le cui prime tecniche produttive risalgono a circa 5000 anni fa. A loro si deve l’inizio dell’olivicoltura e dell’impiego dei suoi prodotti nel
Mediterraneo: il prezioso succo e le tecniche per produrre l’olio con mortai e rustici in pietra si propagarono rapidamente verso il Medioriente: nell’attuale Siria, in Palestina, in Egitto, viaggiando anche verso le regioni settentrionali del Mediterraneo.
Nella
Grecia classica infatti, l’olio rappresentava un bene tanto prezioso e ricercato da avere la protezione della dea Atena ed essere conferito come premio agli atleti vittoriosi nei Giochi Panatenaici. Il mito della fondazione della città di Atene racconta infatti come l’ulivo fu il dono che la dea della saggezza diede agli abitanti della città – e attraverso loro all’umanità – quando decisero di dedicare a lei la
polis appena fondata.
Gli effluvi dell’“oro verde” pervadevano le strade e le botteghe dell’antica Roma e dell’impero. Furono i Romani, difatti, i principali artefici della diffusione capillare dell’olio in tutto il bacino del Mediterraneo – già iniziata da oltre mille anni – cogliendo e sfruttando la sua malleabilità come
prodotto di consumo e commercio: non esisteva terra nell’orbita di Roma dove non arrivasse questo prodotto, le cui varianti di peggior qualità erano usate anche per l'illuminazione. Tant’è vero che appare in ben 300 ricette del
De Re Coquinaria di Apicio, come ingrediente per condire, cucinare, friggere o base per salse. Va ricordato, inoltre, Plinio il Vecchio, il quale affermò che “ci sono due liquidi particolarmente gradevoli per il corpo umano: il vino dentro e l'olio fuori”; se ne faceva, infatti, uso copioso anche durante l’esercizio fisico, spalmandolo sulla pelle come crema idratante e protettiva.
Autori antichi come Varrone, Catone e Columella, ci raccontano che le olive venivano classificate in base alla provenienza geografica e allo stadio di maturazione del frutto, creando diversi gruppi per qualità e varietà. Il più pregiato era considerato l’
Oleum omphacium, sabino o ligure, ottenuto da olive verdi e corrispondente al nostro olio nuovo. Seguiva il
viride, distinto in
flos, dalla prima spremitura di olive quasi mature, anch’esso di alta qualità e paragonabile al nostro EVO, il
sequens, frutto della seconda estrazione, e lo scarso
cibarium (o
maturum), da olive spagnole o africane, destinato agli schiavi e a usi non alimentari, come l’illuminazione. Nell’impero romano infatti l’olio di bassa qualità era la principale fonte di luce durante la notte, venendo usato per alimentare le lampade a olio. Nell’Impero Romano, l’olio ricopriva una rilevanza tale da avere una borsa a essa dedicata, l’
Arca olearia, con tanto di broker specializzati. Con la caduta dell’Impero, l’olivicoltura nell’Alto Medioevo conobbe un declino, come tante altre arti e attività, e furono spesso le comunità monastiche a conservare le tecnologie e le conoscenze per la spremitura delle olive. L’efficacia della tecnica di
frangitura sviluppate dagli antichi, ha dato infatti il via a una tradizione plurisecolare che è rimasta immutata, tramandandosi fino alle soglie del novecento. Le olive raccolte venivano stoccate nel
tabulatum, un soppalco provvisto di pavimento impermeabilizzato in leggera pendenza, e fatte decantare finché non perdevano l’acqua di vegetazione, per essere infine spremute a freddo con procedimento meccanico.
Il vero olio EVO - Di eccellenze regionali e manipolazioniPer potersi considerare extravergine, l’olio d’oliva deve rispettare requisiti stabiliti a livello europeo. Le olive non devono aver subito trattamenti chimici e vanno raccolte all’
invaiatura, fase fenologica in cui il loro colore tende a virare dal verde al nero. Quanto più si anticipa questo passaggio tanto più l’olio avrà proprietà sensoriali elevate, che si riflettono in un aroma erbaceo, un gusto leggermente amaro e piccante, e una colorazione verde brillante.
Le
drupe – altro nome per i frutti – devono essere molite a freddo e meccanicamente. L’olio ottenuto dovrà avere acidità pari o inferiore allo 0,8%, perossidi non superiori a 20 e valori organolettici adeguati al cosiddetto
panel test: ovvero la valutazione da parte di un comitato di assaggio, secondo criteri prestabiliti.
Assoluta primizia è l’Olio Nuovo, estratto dalle prime olive di stagione, tra metà ottobre e fine novembre. Questi non viene filtrato e imbottigliato subito dopo la
spremitura, pertanto va consumato fresco di frantoio, entro 48 ore; il suo caratteristico gusto intenso, corposo e amarognolo è riconoscibile all’istante anche grazie a una sensazione di prurigine all’assaggio.
L’Italia è uno dei principali paesi produttori e consumatori di olio EVO al mondo e si distingue per oltre 500 varietà di olive autoctone, che generano un ricchissimo ventaglio di olii regionali, distinti da molti punti di vista anche in modo importante, ma sempre d’eccellenza.
Guidano la produzione Umbria, Toscana e Liguria, in un perfetto connubio tra vocazione rurale e tecnologie all’avanguardia, in cui la tradizione manuale si fonde agli automatismi della meccanizzazione agricola.
L’Umbria, in particolare, è tutta territorio DOP: la maturazione lenta delle olive, dovuta al paesaggio collinare e alla distanza dal litorale, dà generalmente vita a un olio fresco, dal gusto fruttato, profumato di erba, mandorle e carciofo.
La tradizione toscana, al momento marchio IGP, spicca per le tipicità dei singoli
terroir e delle varietà, con oltre 80
cultivar autoctoni, come Frantoio, Moraiolo, Pendolino e Maurino. Il suo olio ha spesso un colore verde intenso, aromi vegetali e nota piccante al palato. In Toscana, soprattutto, il consumo di olio assurge a una dimensione quasi sacrale: poche cose al mondo fanno sentire un toscano a suo agio come una “fettunta”, ossia pane abbrustolito aromatizzato con aglio e olio.
Quasi agli antipodi, l’olio ligure è invece leggero all’olfatto, dolce e morbido al gusto, e delicato nel colore: perfetto per arricchire le ricette senza alterarne le proprietà organolettiche. La filiera delle regioni Lazio, Abruzzo, Marche e Molise sono in costante crescita, e il Sud Italia detiene da sempre il primato produttivo a livello quantitativo, coprendo il 60% della produzione nazionale.
In Campania esistono oltre 60
monocultivar autoctoni, come Pisciottana, Ravece e Ogliarola, e 5 territori DOP, mentre 60 milioni di ulivi, anche plurisecolari, punteggiano la Puglia, che ha la maggior superficie destinata all’olivicoltura. Altissima è la qualità dell’olio siciliano, da cultivar di grande personalità, come la Cerasuola, la Tonda Iblea, la Nocellara dell’Etna e la delicata Biancolilla.
Tuttavia, prodotti tanto raffinati e ricercati, dal cospicuo valore culturale ed economico, hanno inevitabilmente attratto numerosi falsari. E così, benché dall’epoca romana classificazioni rigorose definiscano l’olio EVO, da millenni imperano contraffazioni e imitazioni. Ad esempio, Apicio spiegava come “correggere” lo scadente olio spagnolo con erbe e radici; Galeno riportava l’uso di “tagliare” l’olio con sostanze come il lardo liquefatto. Per prevenire e contrastare tale fenomeno, i Romani apponevano sulle anfore i
tituli picti, iscrizioni dipinte che specificavano provenienza, peso, qualità dell’olio e nomi di produttore e importatore. Non è cambiato molto da allora, non trovate?
In Italia, il problema della falsificazione è ancora urgente e inesorabile, al punto da essere divenuto oggetto nel 2013 di 15 vignette sul New York Times, intitolate “Il suicidio dell’extravergine”, in cui veniva denunciata la forte svalutazione del prodotto Made in Italy causata dall’amalgama illegale con oli spagnoli e nordafricani. Basteranno l’istituzione dei marchi DOP e IGP e la cosiddetta “legge Salva olio” a fermarlo? Noi, da parte nostra, puntiamo da sempre sulla qualità.
Oltre la cucina!Piacere immenso per il palato, l’olio EVO ha anche fama di autentica panacea. Difatti, l’alta percentuale di antiossidanti e acidi grassi lo rende una validissima medicina naturale, in grado di rallentare l’invecchiamento cellulare, aumentare le difese immunitarie, prevenire malattie cardiovascolari e colesterolo cattivo. Benché bandito per anni dalle diete dimagranti, è ora tornato alla ribalta proprio per queste sue proprietà, prediletto anche dalla generazione dei
millennials.
È sostanza meravigliosa anche lontano dalla tavola. Già in passato veniva impiegato come medicina per attenuare le ustioni e lenire le ferite, come unguento per rendere forte ed elastica la pelle, come base naturale per balsami e oli profumati...
Grazie alle elevate proprietà idratanti, è ancora oggi utilizzato per la produzione di maschere e creme che rendono splendenti i capelli, setose e morbide le mani e la pelle, forti le unghie. L’olio è un dono prezioso della natura e dell’ingegno umano, talmente versatile da considerarsi “un alimento antichissimo con virtù da era spaziale!”, come afferma Tom Mueller nel suo “
Extraverginità”.
E sull’argomento olio EVO torneremo presto, promesso, perché c’è molto altro da dire… questo era solo un assaggio!